“Se sei davvero onnipotente, crea un macigno talmente grande che neanche tu sei in grado di sollevarlo”.
Questa disputa tra Dio e il diavolo riportata dalla tradizione ebraica rappresenta un esempio geniale di paradosso logico. Realizzare una delle due cose nega l’altra, così l’onnipotenza di Dio viene messa in crisi da questo enunciato.
Fin dall’antichità l’uomo ha subito il fascino dei paradossi, diventati poi una moda medievale con le frequenti dispute intellettuali per cercare di risolverli.
Essi, nel corso degli anni, si sono rivelati dei validi strumenti per risolvere situazioni all’apparenza irrisolvibili, o trovare spiegazioni ad eventi all’apparenza inspiegabili. Partendo dall’osservazione empirica dei fenomeni naturali, gli antichi saggi si erano resi conto che anche l’ambiente non era esente dalla logica del paradosso: se aggiungiamo tanta legna al fuoco fino a soffocarlo, esso si spegnerà. “Aggiungere legna per spegnere il fuoco” è una definizione solo all’apparenza illogica e lontana dal buon senso comune, essa infatti nasconde una saggezza frutto della paziente osservazione, valutazione ed elaborazione degli eventi della vita e del mondo circostante.
In epoche più recenti l’eccesso di speculazione teorica, con le sue astrazioni e il distacco dalla realtà concreta e dalla pratica, aveva portato all’accantonamento della logica del paradosso. Tuttavia negli ultimi anni la riscoperta e l’interesse da parte del mondo occidentale per la cultura orientale, in cui la logica del paradosso è molto sviluppata ed utilizzata, ha ridato nuova linfa e visibilità a questo antico strumento portandolo ad una applicazione pratica in svariati ambiti della nostra società. Basti pensare all’utilizzo in ambito aziendale e manageriale del sapere e delle massime di Sun Tsu, riportate nel celebre volume l’arte della guerra, in cui vengono riportate strategie e stratagemmi all’apparenza paradossali, ritenuti efficaci ed indispensabili per vincere il nemico in battaglia. “Mostrati debole agli occhi del nemico e ti sarai assicurato la vittoria”, recita una di queste massime. Fai sentire il nemico sicuro di sé, lasciagli credere che ti sia superiore, che abbia già vinto. Così abbasserà la guardia e, nell’istante in cui si mostrerà vulnerabile e si esporrà ai tuoi colpi, attaccalo con tutta la forza che hai.
Questo semplice stratagemma ha permesso a molti condottieri dell’antichità, tra cui Alessandro Magno, Giulio Cesare e svariati condottieri dell’antica Cina, di vincere importanti battaglie che hanno segnato la Storia sopperendo alla carenza di uomini , all’inferiorità numerica o alla superiorità in termini di risorse e mezzi tramite l’astuzia e l’utilizzo della logica paradossale.
Un altro utilizzo moderno del paradosso, rivelatosi molto efficace, è nel campo delle psicoterapie e dei percorsi di crescita personali. Fin dai tempi della scuola di Palo Alto e di Paul Watzlawick, e grazie al contributo di ricercatori moderni come Giorgio Nardone, sono state ideate ed affinate semplici ma geniali tecniche per lavorare su patologie e disturbi d’umore, ansia, depressivi, anche gravi. Invitare il paziente ad assumere un atteggiamento paradossale manda in corto circuito il suo sistema, inducendo un cambiamento nella percezione del problema, ad aprirsi a nuove strategie e sviluppare nuove risorse.
Vero e falso possono sovrapporsi e integrarsi, e quello che in apparenza conduce in una direzione, se portato al livello massimo si satura, e conduce invece al suo opposto.
Per fare un esempio pratico di applicazione di questo principio in ambito psicoterapeutico possiamo citare la tecnica utilizzata nell’ambito della terapia breve strategica per curare i disturbi ossessivo-compulsivi, ovvero quei gesti compiuti ripetutamente e più volte nell’arco di un breve lasso di tempo in modo compulsivo, espressione della paura di non avere sotto controllo le situazioni per cui ci si inventa una sorta di rituale per scacciare il timore che le situazioni sfuggano di mano. Controllare decine di volte se si è chiuso il gas prima di uscire di casa, spegnere e riaccendere la luce continuamente prima di lasciare una stanza, correre in casa a farsi la doccia ogni volta che per strada si incrocia un’auto di colore verde…l’elenco è lungo, i comportamenti disfunzionali sono svariati e colpisce un sempre maggior numero di soggetti.
La prescrizione terapeutica che si è rivelata più efficace per curare questo disturbo è stata di invitare il paziente a svolgere volontariamente un gesto altrimenti spontaneo. L’individuo si impone di ripetere più volte quell’azione che generalmente fa in maniera automatica e questo paradosso permetterà di estinguere l’automatismo in quanto si creerà un aumento volontario della fantasia spaventosa, che conduce al suo naturale annullamento. Sembra incredibile ma è efficace. D’altronde la mente umana funziona così, come recita un altro importante principio della filosofia orientale: realizzare il pieno per ottenere il vuoto. Lo yin saturato diviene yang. Se si fissa un’idea nella mente e si pensa ad essa intensamente, accrescendola il più possibile, dopo poco la mente andrà altrove e l’idea collasserà. Sfuggirà. Si annullerà.
Sostituendo l’automatismo con la volontà ciò ch è inconscio emerge alla coscienza, la paura viene vista, riconosciuta, accolta. E viene trasofrmata.
La mia esperienza personale riferita alla logica del paradosso ha riguardato la sua applicazione all’ambito dei rapporti interpersonali. All’epoca non avevo ancora cominciato percorsi di cambiamento e crescita personale, ma, a distanza di anni, ripensando a quell’evento, mi sono reso conto di aver sciolto quel nodo ed essermi liberato della sofferenza assumendo, seppur spontaneamente e inconsapevolmente, un comportamento paradossale, che mi ha consentito di annullare e rimuovere la causa del mio disagio.
Avevo appena iniziato un nuovo lavoro, manifestando, fin dal primo giorno, tutta la mia insicurezza e timidezza. E’ risaputo che certi atteggiamenti attirano l’attenzione di persone giudicanti, mostrarsi come dei pulcini spauriti ed inermi nella giungla degli ambienti lavorativi arrivisti e frenetici porta ad esporsi al fuoco incrociato di sguardi sprezzanti, ramanzine, richiami e “lavate di testa”. In particolare ero entrato nelle mire di un responsabile del settore aziendale in cui lavoravo particolarmente arcigno e severo. Il primo incontro con lui fu un disastro, sbagliai una delle mie mansioni in sua presenza e la sfuriata che ne seguì mi segnò in modo indelebile. I mesi successivi furono un Inferno, ogni incontro con il mio responsabile era caratterizzato da richiami, urla e insulti da parte sua a cui corrispondevano miei errori. Più venivo giudicato e più cresceva la mia ansia, e più sbagliavo, in un circolo vizioso perverso e letale, che si auto-alimentava a causa anche delle mie reazioni alle sue sfuriate, che andavano dal silenzio rancoroso accompagnato da sguardi carichi di odio e rancore ad atteggiamenti di totale sottomissione, capo chino, sguardo rivolto verso il pavimento e un filo di voce appena percettibile con cui chiedere scusa, ammettendo le mie colpe e incapacità. La voglia di mollare era tanta, d’altronde avevo la sensazione che il mio capo non aspettasse altro che firmassi la lettera di dimissioni e sparissi per sempre. Era nata una spirale di odio e disprezzo che avvelenava entrambi, un muro di incomunicabilità che impediva ogni rapporto umano, dialogo e confronto sereno. Eravamo troppo immedesimati nei ruoli di severo burocrate e maldestro impiegato, arrogante e umile, vittima e carnefice, forte e debole, per vedere l’umanità dell’altro, liberarsi della corazza per vedere l’essenza di avevamo di fronte.
Con un ultimo slancio di dignità decisi di non soccombere a quella vicenda e decisi di affrontarla. Accantonai l’idea di lasciare il lavoro perché mi ero reso conto che fuggire non sarebbe servito a nulla. Presto o tardi, a distanza di giorni, mesi o anni, in un altro ambiente si sarebbe ripresentata la stessa e identica vicenda perché non avevo sciolto il nodo che l’aveva fatta emergere. La causa del mio disagio sarebbe rimasta latente nella mia vita, pronta a manifestarsi di nuovo quando si fossero ripresentate quelle medesime condizioni che l’avevano fatta emergere quella volta.
Mi confidai con un amico raccontandogli questa vicenda. Dopo averci riflettuto un pò mi diede un consiglio: provare ad avere una reazione diversa rispetto a quella che avevo usualmente nei confronti del mio responsabile quando mi richiamava.
“Se metti sempre le stesse cause, avrai sempre gli stessi effetti. Se reagisci ai richiami e alle urla manifestando sempre rancore, odio o senso di soggezione, continuerai ad alimentare i suoi comportamenti aggressivi. Prova a reagire mostrando gratitudine, sorridigli, magari stringigli la mano. Prova a spazzarlo, dagli ciò che non si aspetta. E vedi cosa succede.”
Inizialmente mi sembrò un suggerimento folle. Rispondere co gentilezza e addirittura col sorriso e ringraziando a chi si comporta male con te mi sembrava totalmente irrazionale, insensato, inutile. Fuori dal mondo. Tuttavia decisi di provare. Non avevo strategie alternative e non avevo nulla da perdere.
Non dimenticherò mai la sua espressione di sbigottimento alla mia reazione di fronte al suo ennesimo richiamo. Seguendo il suggerimento del mio amico gli avevo sorrido e, gguardandolo dritto negli occhi, dissi: “la ringrazio tanto per il fatto di sottolineare i miei errori perché mi dà la possibilità di migliorarmi. Se non mi richiamasse non avrei la possibilità di capire dove sbaglio e non potrei cambiare. Lei mi sta dando un grande opportunità. Grazie davvero per questo.”
Di fronte a questa reazione inaspettata il mio capo impallidí, balbettó qualche frase incomprensibile e andò via senza aggiungere altro. Sembrava sconvolto.
Da allora il nostro rapporto cambiò. Non c’era più violenza verbale, urla, umiliazioni. Se sbagliavo, mi veniva fatto notare con gentilezza. A volte non era più un richiamo ma un suggerimento. “Hai svolto questa mansione in questo modo, ma io avrei fatto diversamente. Perché non provi a fare in quest’altro modo la prossima volta?” Puntualmente reagivo sempre con gratitudine e gentilezza. Quando poi dopo qualche anno ho lasciato quel lavoro ho avuto modo di avere anche uno scambio umano con quella persona, che finalmente si poneva nei miei confronti mostrando anche dei sentimenti. Entrò in ufficio per salutarmi e mi porse la mano, mentre mostrava un sorriso malinconico sulle labbra. “Ci mancherai” mi disse. “Sei stato un ottimo lavoratore”.
Opponendo la gentilezza alla rabbia, la gratitudine al disprezzo, l’opposto a ciò che mi veniva dato, avevo modificato quel rapporto. Ciò che sembrava un comportamento irrazionale, paradossale e innaturale rispetto al comune sentire, mi aveva permesso di raggiungere la serenità.