Capitolo 12: i tesori del cuore

I TESORI DEL CUORE

Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore!

Queste parole mi erano rimaste impresse in mente come se me le avessero marchiate a fuoco. Furono il mio lasciapassare per la libertà e la serenità. L’ultimo dono di Marini e del “nostro” percorso terapeutico.
“Nostro”: fu lui a definirlo tale. Anche lui era cambiato, aveva lavorato su se stesso durante le nostre sedute. Gli avevo dato l’occasione di approfondire la conoscenza della sua “grammatica dell’anima”.
“Questa frase appartiene a Nichiren Daishonin, un monaco giapponese del XIII secolo. Sono buddista, mi sono avvicinato a questa religione dopo avere deciso di riprendere la mia professione. Grazie alla saggezza dei suoi insegnamenti sono riuscito ad abbandonare la dipendenza dall’alcool e dalle sostanze stupefacenti e a ripulire la mia vita dal dolore e dalla disperazione, che mi avevano attanagliato il cuore per sei lunghi anni. Sono rinato per merito del buddismo, sono riuscito a percepire l’essenza della sua filosofia, l’ho fatta mia e l’ho applicata nella mia vita. Posso dire che oggi sono una persona migliore di quanto lo sia mai stata.
La natura profonda di questi insegnamenti è contenuta negli scritti di quest’uomo, Nichiren, un grande maestro buddista. Per tutta la vita ha realizzato scritti, saggi, lettere per i suoi discepoli permeati di umanesimo, saggezza, coraggio e compassione. Benché questi scritti risalgano a ben sette secoli fa sono ancora attuali in ragione dell’universalità del suo messaggio. Vorrei che leggessi qualcosa, magari potresti trovare un incoraggiamento oppure potresti avere un’intuizione utile…”
Fu una delle rare occasioni in cui fui inizialmente scettico sul lavoro svolto con Marini. Il cambiamento innescato dalla lettura di un libro aveva l’aria del luogo comune, una leggenda metropolitana diffusa da qualche invasato che si appropriava di un insegnamento o una dottrina per i propri fini e scopi personali. Avevo personalmente sperimentato quanto questo approccio, che Marini aveva definito “biblioterapeutico”, fosse stato infruttuoso e deludente, in quanto avevo letto tonnellate di libri in una fase della mia vita in cui ero assetato di conoscenza, alla ricerca di una perla di saggezza che mi scuotesse nel profondo causandomi un cambiamento interiore. Avevo letto Nietzsche, Gourdjeff, Ouspenskij, Heidegger, Marx, Dostoevskij, Gibran, tutti autori che, a detta di molti, avevano realizzato scritti rivoluzionari, capaci di cambiare la vita del lettore che avesse avuto il coraggio e la fortuna di comprendere la profondità delle loro intuizioni e deduzioni, tuttavia nel mio caso non si era generato l’effetto sperato. Seppur apprezzando la prosa e l’alto valore estetico e intellettuale di queste opere, non innescarono alcuna trasformazione in me, lasciandomi ogni volta la sensazione che mancasse qualcosa, una lacuna fredda e pungente come quella che si sperimenta davanti ad un’opera d’arte suggestiva ma imperfetta.
Fu con questa punta di vivo scetticismo che mi avvicinai al librone rilegato con una copertina rossa su cui era incisa a caratteri dorati la scritta “Raccolta degli scritti di Nichiren Daishonin.” Decisi comunque di dare il massimo per cercare di ricevere il più possibile da quell’esperienza, così presi qualche giorno di ferie, chiesi ad un collega di prestarmi la sua casa in montagna e mi recai lì per immergermi nella lettura. Lo chalet era arredato con del mobilio essenziale, mancavano acqua, gas, corrente ed elettrodomestici e in assenza di distrazioni riuscii a trascorrere tre giorni di profonda meditazione e riflessione. Leggevo per ore e alternavo quelle letture con una passeggiata nei boschi, immergendomi nella natura per rilassarmi e favorire un’ assimilazione ulteriore di quei concetti. Mangiai poco, dormii ancora meno, di notte leggevo facendomi luce con una lanterna, la mattina mi alzavo all’alba e mi recavo al fiume per cominciare la giornata con un bagno nell’acqua gelida di montagna, così da essere perfettamente sveglio e temprato prima di ricominciare la lettura. Fin dal principio sentii di stare leggendo qualcosa di assolutamente nuovo per me, quelle lettere erano scritte con un linguaggio molto semplice e scorrevole, mai appesantito da inutili virtuosismi linguistici o pesanti teorie dottrinali, ma al tempo stesso il messaggio che emergeva da esse era di una profondità immensa. Non impiegai molto a rendermi conto che ciò era un risultato straordinario, mi era capito spesso di lamentare l’incomprensibilità dei concetti espressi da grandi filosofi quali Hegel e Kant e avevo sempre attribuito questa impossibilità di esprimersi con un linguaggio più leggero all’essenza del contenuto di quell’insegnamento, che richiedeva un immane sforzo dell’intelletto per giungere a percepirlo. Nichiren Daishonin aveva smontato quella mia convinzione.
Tuttavia, dopo aver sfogliato le prime pagine di quel libro e aver letto qualche frammento ebbi la forte tentazione di abbandonarlo. Era un testo voluminoso di oltre 500 pagine e non avevo ottenuto particolari indicazioni da Marini sulla linea da seguire, se cominciare a leggere il testo dall’inizio e cercare di arrivare in fondo o dare priorità ad alcuni scritti, per cui mi affidai alla sorte e, per la mia prima consultazione della “Raccolta” decisi di aprire il volume a caso. Lo sguardo mi cadde immediatamente su una frase che recitava “anche se odiate questo mondo è impossibile sfuggirgli”. Un attimo dopo il volume stava volando contro la parete contro cui lo avevo scagliato in un gesto di stizza. Ero deluso e sconcertato, come poteva un insegnamento buddista, ma soprattutto un testo consigliatomi dal dottor Marini, la persona che più ammiravo al mondo in quel periodo, contenere un pensiero così sconfortante, che invitava alla rassegnazione e alla passività? Avevo sempre attribuito al buddismo un messaggio diverso della tacita e sottomessa accettazione degli eventi che avevo sempre attribuito principalmente alla civiltà cristiana, per cui mi sentii tradito. Non riponevo grandi aspettative su quella esperienza ma non pensavo potesse rivelarsi così fallimentare.
Con grande sforzo di volontà decisi di dare una seconda opportunità a Nichiren ma non andò molto meglio. Aprii nuovamente il volume a caso e la frase che stavolta lessi fu “ho insistito che i templi dei seguaci del Nembutsu, della setta Zen e dei preti Ritsu fossero bruciati e i preti Nembutsu decapitati.”
Altro volo, altro schianto contro il muro. “Alla faccia della compassione e dell’umanesimo buddista”, pensai.
Tuttavia anche stavolta non riuscii a vincere la tentazione di raccattare nuovamente il volume da terra e riprendere la lettura. Sembrava che mi avesse colpito un incantesimo o una maledizione, che mi spingeva in un atteggiamento che sembrava solo alimentare la mia irritazione e il mio fastidio.
Nuovo giro, e nuova mazzata: “anche se dovessi diventare il più misero dei mendicanti, non disonorare il Sutra del loto.”
Nonostante avessi provato la medesima sensazione, sperimentata precedentemente, che qualcuno mi stesse strizzando le viscere, stavolta non ci fu nessun lancio perché decisi di soffermarmi a riflettere sulle prime reazioni generate da quelle righe. Mi chiesi cosa mi avrebbe suggerito di fare Marini in quella situazione se fosse stato presente e non ebbi alcun dubbio al riguardo: “chiediti come risuonano dentro di te quelle parole, come si agganciano alla tua vita. La causa è al nostro interno, non cercare le risposte fuori, non proiettare l’origine degli eventi all’esterno.”
Seguendo questa linea di condotta giunsi ad una conclusione che fu liberatoria e alleggerente al tempo stesso: mi trovavo nell’impossibilità di smettere di leggere concetti che, per i miei parametri di giudizio, ritenevo “riprovevoli”, “crudeli”, “assurdi”, “presuntuosi”, perché negli scritti gli autori cercano di riversare il proprio stato vitale, la propria anima, proprio come fanno gli artisti con le loro opere d’arte. Quanto più uno scrittore è in contatto con la propria profonda natura, tanto più il suo scritto sarà genuino e sincero e ciò non potrà non risuonare in chi legge. Non potrà lasciare indifferenti. Potrà generare sentimenti di condivisione ed empatia, o reazioni negative, come nel mio caso. Ma quanto merito ha uno scritto che riesce a entrare in contatto con l’interiorità di un individuo, a scuoterne la coscienza e a farlo diventare più consapevole di ciò che è, su se stesso, la sua storia e la sua vita?
Ricominciai a leggere. Forse fu per caso, forse perché avevo cambiato la mia predisposizione mentale, in ogni caso mi ritrovai a leggere frasi incoraggianti, impregnate di saggezza, umanità e coraggio.
“Né la pura terra né l’inferno esistono al di fuori di noi; entrambi si trovano soltanto nel nostro cuore. Chi è risvegliato a questo é chiamato Budda, chi è illuso é chiamato persona comune”. “L’oro non può essere bruciato dal fuoco né corroso dall’acqua, mentre il ferro é vulnerabile ad entrambi. Una persona saggia é paragonabile all’oro, uno sciocco al ferro”.
“Ognuno di voi deve raccogliere il coraggio di un leone e non soccombere di fronte alle minacce di chicchessia. Il leone non teme nessun altro animale e così neppure i suoi cuccioli.”
Ogni rigo, ogni parola che leggevo mi arricchiva, sentivo un senso di pienezza che colmava ogni lacuna del mio essere. L’immagine della cascata che riempie la vasca di pietra tornò più viva che mai e il getto era sempre più potente, la vasca non riusciva a contenere tutta l’acqua che riceveva e cominciò a strabordare. Quelle righe erano permeate di una tale potenza che a volte mi veniva la pelle d’oca, potevo immaginarmi la voce severa e tuonante di quel monaco mentre pronunciava le parole che stavo leggendo. Lo visualizzavo di fronte a me, un vecchio canuto, ricoperto di stracci e dallo sguardo rovente, quasi spiritato, che mi comunicava il suo messaggio di speranza e gli eterni insegnamenti di cui si faceva portavoce.
L’ultimo giorno ebbi la folgorazione definitiva. Avevo ancora poche ore, per cui decisi di concentrarmi sulla lettura e lo studio di un’unica lettera. Scorsi l’indice col dito cercando un titolo che mi colpisse particolarmente e la scelta cadde su i tre tipi di tesori.
Colpito dal titolo e dalla curiosità di scoprire quali fossero questi “tre tesori”, cominciai a leggere. Le prime righe ribadivano concetti che avevo già appreso dalla lettura di altre pagine del volume, per esempio l’affermazione che “tutte le creature viventi possiedono la natura di Budda”, ma ben presto si andò ad aggiungere un nuovo tassello di saggezza quando lessi che “la fragranza interna otterrà protezione esterna”. Non ebbi bisogno di andarmi a studiare le note a piè di pagina per trovare una spiegazione a quella frase. Il suo significato era chiaro, ciò che si intendeva per “fragranza”, che io attribuii subito ad una virtù, e per “protezione esterna”, ovvero la “retribuzione” per le nostre azioni, la conseguenza delle nostre scelte. Mi parve un concetto semplice ma al tempo stesso geniale, empirico, verificabile da chiunque nella propria vita quotidiana. E anche l’esperienza altrui poteva fungere da esempio per la veridicità di questo insegnamento, e in questo caso il mio metro di giudizio era rappresentato dalla vita del dottor Marini, riflettendo sui modi in cui il suo ambiente aveva reagito alle cause da lui poste in essere, gli incontri, le storie di vita, che avevano indirizzato la sua esistenza verso quella meravigliosa missione di lenire le sofferenze degli altri con la sua umanità ed empatia.
Poi giunsi infine al passo della lettera che esplicava la distinzione tra i tre tipi di tesori: “Più preziosi dei tesori di un forziere sono i tesori del corpo e prima dei tesori del corpo vengono quelli del cuore. Dal momento in cui leggerai questa lettera sforzati di accumulare i tesori del cuore!”
In quel caso dovetti ricorrere ad un piccolo commentario che chiarisse il senso di questo frammento: veniva spiegato che i tre tesori sono rispettivamente “i tesori del forziere”, cioè i beni materiali, come i soldi e in generale tutto ciò che un individuo può materialmente possedere, “i tesori del corpo” che riguardano invece beni immateriali come l’orgoglio e l’onore, infine “i tesori del cuore” che vengono identificati con la parola “fede”. Il commentario aggiungeva che “l’attaccamento” ai primi due tesori impedisce di accedere al terzo e ciò genera dolore, frustrazione, oscurità dell’anima. Questa valutazione era perfettamente attuabile alla diatriba che mi vedeva coinvolto con l’agente immobiliare, in quanto la mia prospettiva limitata mi faceva rimanere ancorato ad una eccessiva considerazione per il denaro che quell’uomo minacciava di sottrarmi, e per il mio orgoglio ferito, come conseguenza dell’essermi sentito truffato e umiliato dalla sua condotta. Restava un punto cruciale da chiarire, l’ultimo tassello che mi consentisse di acquisire definitivamente una lezione che potessi attuare a quella vicenda: cosa erano per me i tesori del cuore? Non ero buddista, per cui la parola “fede” rimaneva astratta e confusa, non potevo intenderla in senso dogmatico in quanto non seguivo nessuna confessione religiosa.
Rilessi l’intera lettera decine di volte e trovai la mia risposta in quel frammento che asseriva che tutte le creature viventi possiedono la natura di Budda. Bastava adeguarlo alla mia situazione e non interpretarlo in senso letterale ed il gioco era fatto: tutti gli esseri umani hanno uguale dignità, le azioni riprovevoli e distorte sono frutto dell’oscuramento del loro animo derivante dal bagaglio di esperienze che si portano dietro e che hanno formato il loro carattere. Era questa la mia accezione di fede, ciò in cui dovevo sforzarmi di credere. Dovevo cambiare prospettiva, come mi aveva suggerito Marini narrandomi la vicenda di sua figlia. Non fu forse lo sviluppo della fede a salvarlo dalle tenebre verso cui si stava dirigendo? Riconoscendo la purezza d’animo e la dignità dell’individuo che gli aveva sottratto la sua amata bambina, pensando con mente e cuore sereni a colui che gli aveva causato il dolore più grande della sua vita, non aveva coltivato il suo “tesoro del cuore”?

 

Pubblicato da Arsenio

Arsenio Siani nasce a Sarno (SA) il 29/9/1982. Di animo sensibile e introverso, da sempre assetato di conoscenza, studioso, nel tempo libero, di filosofia e religione, nel 2009 si converte al Buddismo aderendo all'istituto buddista italiano Soka Gakkai, con cui inizierà un percorso di autoconoscenza e di sviluppo di consapevolezza sulla vita e sull'uomo. Questo percorso lo porterà ad intraprendere studi di psicologia che lo porteranno a conseguire il diploma in counseling e coaching e a intraprendere la carriera come counselor. Nel 2012 decide di dedicarsi alla scrittura e dopo circa un anno vede la luce il suo primo romanzo, "Roba degli altri mondi", primo volume della trilogia Fantasy “I Maestri”, pubblicato dalla casa editrice Officine Editoriali. Scrive anche racconti con cui partecipa a diversi concorsi letterari, ottenendo riconoscimenti e segnalazioni. Nel novembre 2013 il suo racconto "Calzini" si classifica al primo posto nella sezione “Racconti” alla decima edizione del "Cahieurs du trosky Cafè". Nel 2014 “Roba degli altri mondi” riceve la menzione d’onore da parte della giuria al concorso letterario “Penna d’autore” e nel luglio dello stesso anno la sua raccolta di racconti "Ogni cosa è connessa" viene segnalata al concorso letterario "Narrando per passione".Nel 2015 pubblica, sempre per i tipi di Officine Editoriali, “Il prezzo della conoscenza”, secondo volume della trilogia “I Maestri”. Inoltre per la Eretica edizioni pubblica la raccolta di racconti "Frammenti". Altre sue grandi passioni, il disegno e la fotografia per i quali manifesta particolare sensibilità e trasporto.