Capitolo 11: verità

Verità

Cos’è questa tristezza che sento nel cuore?
Non sto tanto bene…perché? Di cosa avrei bisogno?
Mi sento apatico e svogliato nei confronti della vita. Sento che le cose che faccio non hanno molto senso. Non ho entusiasmo né ottimismo verso il domani.
Sento che devo cambiare qualcosa. Forse dovrei andare via, cambiare aria? Ma non posso lasciare mamma da sola…non ha un compagno, non lavora e ha pochi amici, senza di me cosa farebbe?
No, non è questo il problema. Mamma è adulta, non ha bisogno di qualcuno che le faccia da balia. E’ una donna forte, se l’è sempre cavata nella vita e se le dicessi che voglio andarmene sono sicuro che accoglierebbe la decisione con entusiasmo, perché vuole solo il meglio per me.
Mamma è una scusa. Non è a causa sua se non parto. Ciò che mi frena è la consapevolezza che non basta cambiare l’ambiente esterno per cambiare il proprio mondo interiore. Se non trasformo il mio animo mi porterò dietro i miei problemi e le mie debolezze ovunque vada. Una partenza, ora, non sarebbe altro che una fuga. Ma non si può fuggire da sé stessi. In un’altra città, in un diverso contesto, quanto ci metterebbero le mie tendenze a venire nuovamente fuori e a creare una condizione esistenziale simile a quella che sto vivendo ora?
Devo rivoluzionare me stesso, cambiare i miei pensieri, le mie reazioni e il mio modo di interagire con il mondo.
E le mie relazioni? Davvero non sento il bisogno di una compagna, di avere degli amici, rapporti umani di qualunque tipo? Davvero mi piace così tanto la solitudine? O è anche in questo caso una fuga? Sottraggo me stesso agli altri per paura del giudizio, non riesco ad essere genuino e sincero perché temo di essere giudicato. Devo sempre dimostrare qualcosa, mai essere me stesso, mai mostrare il mio vero volto. Perché? Perché mi vergogno di me stesso. Se non mi piaccio, come posso pretendere di piacere agli altri?
Ma non è solo questo. C’è anche diffidenza, sì, sfiducia nel genere umano. La truffa che ho subito dall’agente immobiliare ha innescato una spirale di rancore verso l’umanità. Ma non sono tutti uguali, no? Il mondo non è fatto solo di truffatori e di gente meschina, ipocrita, doppiogiochista, manipolatrice (l’agente immobiliare,Alessia, Mario, Massimo?, ecc…). Al mondo ci sono anche persone meravigliose come il dottor Marini. Se continuo con questa misantropia mi negherò la possibilità di incontrare altre persone stupende come lui. Quanto sono disposto a rischiare di farmi male, di incontrare altre persone terribili e malvagie pronte ad approfittarsi della mia ingenuità? In fin dei conti il mondo è un posto di squali. Scelgo la solitudine perché mi dà forza, perché mi dà protezione. Scelgo la solitudine per sottrarre agli altri il potere di farmi dire “non ho scelta”.

Questa sfiducia, questa diffidenza verso gli altri ma anche verso me stesso…è questo che ho realmente nel cuore.

Mentre scrivo…l’ansia è assente, la gola è libera dalla morsa che mi ha attanagliato per mesi…

Mi sento più leggero…ma è una sensazione nuova. Altre volte ho sperimentato la leggerezza che derivava dal vuoto. Dall’essermi svuotato, aver lasciato uscire sentimenti negativi. Ora è diverso. Mi sento leggero “nonostante” la pienezza, quella pienezza che deriva da una nuova consapevolezza.

E’ questo che ho nel cuore…che finalmente riesco ad esprimere…

Rilessi più volte la lettera che avevo scritto. Avrei potuto leggerla all’infinito, tanto ero stupito dal grado di consapevolezza che emergeva dalle righe. Marini mi aveva assegnato un esercizio, “riscrivi la lettera che mi hai portato provando a graduare la qualità dei tuoi pensieri e delle emozioni. Ricordi l’esempio del furto d’auto? Questa lettera è come se l’avesse scritta Tizio. Ora riscrivila immedesimandoti in Caio, cerca di percepire e ricreare il suo atteggiamento. E non dimenticarti di notare e annotare anche la qualità e i cambiamenti nelle emozioni, se ci sono.”
Mi chiusi in camera, ovviamente con Roger, accovacciato sulle mie gambe, a farmi compagnia. Il rumore appena percettibile delle sue fusa mi aiutò a concentrarmi inducendomi in uno stato di profondo rilassamento. Scrissi per un pomeriggio intero, “senza avere fretta”, come mi aveva suggerito Marini, riscrivendo e correggendo delle frasi che non mi convincevano, fino a giungere all’espressione dei miei pensieri che ritenevo più genuina e sincera. Quando terminai era ormai sera, mi affacciai dalla finestra e osservai il panorama lugubre della città, il bagliore delle luci che cercava di vincere l’oscurità che calava sulle strade illuminando la via di coloro che si affrettavano verso casa o chi sa quale altro luogo. A vivere, incontrare persone, o a riposare dopo una giornata di lavoro.
Decisi di uscire per esplorare i vicoli della città come avevo esplorato i meandri della mia mente, servendomi dello stesso spirito e determinazione. Sentivo che avrei potuto fare un’esperienza nuova se avessi riportato nel mondo quel nuovo modo di guardare, osservare e testimoniare. Ad un nuovo modo di pensare corrispondono delle azioni nuove. Facendo leva sull’entusiasmo che questa consapevolezza mi offriva mi lanciai in questa avventura e scoprii subito che il mondo non era più lo stesso. Le stesse strade, le medesime mura, i medesimi volti, ora mi parlavano in un modo diverso. L’aria fresca della serata estiva frizzava sulla pelle, potevo sentirne la carezza come mai mi era accaduto prima. Forse, semplicemente, non vi avevo mai prestato attenzione. Quel crogiolo di sensazioni nuove era così piacevole che mi commosse, gli davo il benvenuto ogni volta che il mio essere diventava consapevole di aver ricevuto un nuovo input, poi il benvenuto si tramutò in un “bentornato” quando mi resi conto che quelle sensazioni erano state sempre lì, mi erano appartenute fin dalla nascita ma ignoravo di possedere tale ricchezza così come un povero si porta dietro una gemma preziosa nascosta nel suo logoro mantello ma non lo sa e si porta dietro, senza mai scoprirlo, un grande ed inestimabile tesoro.
Rimasi vigile e in contatto con queste emozioni sottili senza dare la possibilità alla mia mente di vagare incontrollata come era solita fare, annebbiandomi con pensieri irrazionali e distorti. Quando cominciai a sentirmi affaticato nello sforzo di trattenere i miei pensieri escogitai uno stratagemma per non perdere del tutto quello stato di controllo e di presenza con me stesso: cominciai a fare delle libere associazioni mentali, ripetendo mentalmente tutto ciò che percepivo attraverso i miei sensi. In questo modo diventai il supervisore di me stesso, riuscii quasi a dissociarmi dal mio corpo per realizzare una cronaca dettagliata della mia esperienza:

Città, strade, luci, vetrine, negozi, bar, caffè, bibite, bibite fumanti, bibite fredde, aperitivi, risate, compagnia, stanchezza, palpebre pesanti, vestiti logori, divise da lavoro, abiti eleganti, aspetto trasandato, aspetto curato, indigenza, benessere, uno lotta, uno gode, uno spera, l’altro si dispera, famiglie, bambini, amici, anziani, giovani.
I bambini guardano e sorridono, affondano il viso nel petto delle madri o si stringono alle sottane per la vergogna, gli adulti e gli anziani ignorano, vivono o sopravvivono.
Gioia di vivere, serenità pensando alla giornata che finisce, entusiasmo per quella che verrà, paura del domani.
Un cane randagio,scodinzola, occhi che cercano affetto, una carezza, compagnia. Un supermercato ancora aperto, cibo per cani, scodella in alluminio usa e getta, una birra per me. Calo dei prezzi delle verdure, la carne costa di più. Gli addetti guardano male, vogliono chiudere, sono solo, cassa, niente contanti, pago con bancomat, il cassiere sembra risentito, pagare pochi euro col bancomat, strano per lui,non per me, torno dall’animale, mi aspetta davanti alla porta, sembra avere capito, divora la ciotola felice, mostra gratitudine, mi lecca la mano, brama le mie coccole, saltella, giochiamo, corro e mi rincorre, un bastoncino a terra, lo lancio, lo insegue, me lo riporta, poi è stanco, si accuccia sulle mie gambe.
Il calore del suo corpo scalda le membra, la tenerezza del suo essere riscalda il cuore.
Stappo la birra, è calda ma ho sete, bevo lo stesso, è troppo amara, birra danese, non mi piace ma ho sete, devo bere, un bar, un tavolo libero, una “Affligen” media, il cane mi guarda, aspetta, poi si allontana, non torna più. Tristezza, senso di abbandono, mi mancherà, preoccupato per lui, spero che starà bene.
Locale vuoto, non mi dispiace, il barista asciuga dei bicchieri dietro al bancone, non mi degna di uno sguardo, non gli interessa conoscermi, non lo incuriosisco. Disagio, senso di inadeguatezza, non sono interessante, non ho niente da offrire, pago il conto, esco, il barista sorride, ricambio, il disagio svanisce.
Osservare, camminare, vivere, sopravvivere…

Tornai a casa e rilessi la lettera. Dopo l’esercizio che avevo svolto il suo senso mi apparve ancora più chiaro.

La ciclicità delle emozioni non tardò a manifestarsi neanche stavolta, ma qualcosa era cambiato. Non si verificò il consueto abbattimento morale, la sommessa disperazione e la strisciante depressione che mi avevano colpito le altre volte. Forse ero diventato capace di gestire le dinamiche che mi generavano quegli sconvolgimenti emotivi. Prima mi sentivo in balia degli eventi, debole e inerme di fronte all’incommensurabilità della sorte, ma a quel punto del mio percorso ero diventato padrone del mio destino e non avevo più paura della conseguenza delle mie azioni. Un elemento più di ogni altro mi aveva rasserenato permettendomi di riconoscere il ruolo di protagonista nella mia vita: la scelta. Non era stata mia madre a costringermi a rimanere, avevo scelto io di mia spontanea volontà di starle accanto, rinunciando ai miei sogni e ad una vita di viaggi e avventure. Non era stata la malaugurata sorte a condurmi verso relazioni burrascose ed incontri complicati, avevo attirato io, con il mio atteggiamento, quelle persone bisognose nella mia vita.
Questa consapevolezza mi diede grande forza, consentendomi di non soccombere alle emozioni scomode che tentavano subdolamente di affacciarsi nelle mie giornate.
Poi si smosse dentro di me anche qualcos’altro: il desiderio di vendetta. Avevo cominciato a riconoscere un potere in me, una forza vitale imponente e prepotente che esigeva una valvola di sfogo. Così, senza quasi accorgermene, avevo cominciato a pianificare la mia rivalsa sull’agente immobiliare.
Tutto iniziò quando fui convocato dal mio avvocato. Era intenzionato a proporre un incontro all’avvocato della controparte per tentare una transazione ma mi invitò a non riporre troppe speranze nell’accettazione della proposta. “Temo, mio caro, che sei caduto nel tranello di un truffatore seriale e dubito che sia disposto a trattare. Questi tizi in genere sono molto avidi e quando azzannano l’osso tentano di spolparlo fino all’ultimo brandello di carne. Ho svolto le mie indagini ed è venuto fuori che questo…agente immobiliare è implicato in decine di casi simili al tuo. Purtroppo sembra che sia astuto come una volpe, conosce molto bene la legge e fa sempre in modo di tutelarsi per uscirne pulito. La dinamica è sempre la stessa, fa leva sull’ingenuità o l’ignoranza dei malcapitati per fargli firmare contratti o documenti che lo fanno apparire legalmente imperseguibile. Quando le vittime si rendono conto di aver fatto una cavolata è troppo tardi, si ritrovano spalle al muro, impossibilitati ad opporre ogni resistenza alle sue richieste.”
“Quindi mi stai dicendo che a questa carogna non gli si può fare niente, devo subire e basta?”
“Temo di sì…”
“Ma è un’ingiustizia! Come può la legge tutelare una canaglia del genere?”
“Benvenuto in Italia. Purtroppo, nel nostro paese, non sempre legalità è sinonimo di giustizia. Abbiamo un ordinamento giuridico che ha più buchi di una groviera, anacronistico e fallace. E’ diventata ormai consuetudine, per i farabutti, approfittare delle sue lacune per il proprio tornaconto. Sembra incredibile ma ormai l’unico mezzo che hanno i cittadini per tutelarsi da certe situazioni è l’astuzia. Non i tribunali, non le forze dell’ordine. Gli uomini possono fare i conti solo sulle proprie forze per ottenere giustizia. Fiutare l’inghippo, tutelarsi in tempo, essere più maliziosi e scaltri dell’avversario. Sono queste le uniche risorse del cittadino moderno.”
Lo guardai negli occhi grigi, freddi come il ghiaccio, e riuscii a percepire la stanchezza che permeava il suo essere. Il suo volto di uomo anziano, i capelli bianchi, compattati e compressi sulla nuca come batuffoli di cotone, le profonde rughe intorno alle labbra secche e ingiallite e sotto agli occhi, ogni cosa in quell’uomo mi trasmetteva un senso di decadenza e sconfitta. Le sue parole suonavano come una resa, dopo una vita svolta al servizio della legge ammetteva a se stesso prima che ad altri di aver vissuto al servizio di una grande menzogna, riconosceva la chimera della giustizia e trascinava nel mondo l’eco sbiadita di un’illusione giovanile, incosciente, idealistica. La realtà deve apparire più amara agli anziani e alle persone di esperienza, il cinismo di cui sono testimoni e infine anche partecipi rosicchia ogni brandello di umanità lasciando infine un corpo scarnificato e umiliato, che contiene un animo altrettanto esile e martoriato.
Lasciai lo studio senza dire una parola, non salutai né accennai a nuovi appuntamenti. Mentre camminavo le parole dell’avvocato mi rimbombavano in testa e mi suonavano come un invito a farmi giustizia da solo. La legge non mi avrebbe tutelato, ero solo a lottare contro il male e l’unico modo per contrastarlo mi parve, in quel momento, di frapporvi un male ancora più grande.
Qualcosa era maturato dentro di me. Non mi muoveva più una rabbia esplosiva, devastante, istintuale come quella che mi fece aggredire il pover’uomo nel bar prima che andassi in terapia da Marini. Era una rabbia adulta, gelida e lucida. Calcolatrice. Non avevo bisogno di immaginarmi gesti plateali per dare forma a quel magma nero che mi scorreva nelle vene, niente botte da orbi, negozi incendiati, torture, crani fracassati con una mazza da baseball. A quel punto mi figuravo un percorso più sottile, un gioco del “gatto col topo” fatto di pedinamenti e appostamenti per studiare i suoi movimenti e cogliere una falla nella sua giornata in cui intrufolarmi come lui aveva fatto con me.
Aspettavo un momento di debolezza, cercavo il suo tallone d’ Achille per colpirlo nel suo punto debole e devastare il suo orgoglio. Per diversi giorni trascorsi innumerevoli ore seduto in macchina nei pressi del suo ufficio, aspettando che si muovesse per seguire i suoi spostamenti. Cercavo di capire se avesse un’amante, o se fosse omosessuale, o incontrasse rappresentati della criminalità organizzata con cui intrattenesse affari, lo seguivo nella speranza di assistere ad un evento che facesse emergere un suo segreto inconfessabile con cui ricattarlo, ripagarlo con la stessa moneta, distruggendogli la vita e rovinando la sua reputazione.
Feci appositamente dei cambi turno per lavorare principalmente la mattina ed essere libero all’ora di chiusura del suo ufficio e seguirlo in eventuali scorribande notturne. Sapevo bene che i segreti inconfessabili degli uomini si rivelano principalmente quando cala il buio. Tuttavia, nonostante la mia certosina pazienza e la scrupolosa attenzione ai dettagli, non riuscii a trovare niente di significativo, nessun angolo d’ombra nella sua vita. Un paio di cene con la stessa donna, presumo la sua fidanzata, una serata trascorsa al pub con degli amici, addirittura una serata al cinema da solo, in un’altra occasione si recò direttamente a casa dopo il lavoro. Rimasi ad osservare la finestra della sua camera da letto dalla strada, vidi le luci spegnersi molto presto, attesi quasi un’ora prima di allontanarmi per essere sicuro che non uscisse nuovamente di casa.
Sembrava avesse una vita impeccabile ma non riuscii ad accettarlo. Un mostro, un delinquente di quella portata, doveva per forza avere una condotta riprovevole nella vita di tutti i giorni, invece ciò che mi si era presentato davanti agli occhi era la figura di un uomo distinto, gentile, che conduceva un’esistenza umile e tranquilla. Lo stupore lasciò presto il posto alla frustrazione, sentivo che stava vincendo lui ancora una volta e non potevo sopportarlo, così cambiai metodo e provai ad attuare la mia vendetta sobbarcandolo di telefonate anonime, soprattutto notturne, e perpetrando atti vandalici contro il suo ufficio. Ricoprii di mastice i lucchetti della saracinesca, seminai gli escrementi di Roger sul gradino davanti all’entrata, lasciai una bottiglia colma di benzina sul marciapiede antistante l’ingresso del suo ufficio a mo di minaccia, infine lasciai il bozzolo di un proiettile da fucile che avevo trovato in un bosco davanti alla porta del suo locale. L’obiettivo di quei gesti era di logorare i suoi nervi, speravo di rendergli la vita un inferno facendogli credere che era entrato nel mirino di un pericoloso psicopatico (e forse lo stavo diventando davvero), volevo privarlo del sonno, ossessionare la sua mente con pensieri funesti e fare in modo che non si sentisse più al sicuro quando camminava per le strade, andava a cena fuori o se ne stava in casa a leggere un libro. Volevo godere nel vederlo mentre si voltava alle sue spalle per controllare che non ci fosse nessuno che lo stesse seguendo, volevo nutrirmi della sua paura, delle sue paranoie. Ma anche stavolta vinse lui, sfoderò il consueto atteggiamento impeccabile, la stessa aria di superiorità che manifestava da sempre e la sua voce al telefono, quando rispondeva alle mie chiamate anonime, non tradiva un briciolo di nervosismo o tensione. Lo vidi guardarsi attorno divertito e sicuro di sé la mattina in cui chiamò il fabbro per far riparare la serratura della saracinesca che gli avevo danneggiato. Se fosse solo una maschera, se dentro in realtà stesse morendo dal terrore, non mi è dato saperlo. Ma bastò la sua capacità di mantenere un comportamento saldo e dignitoso a farmi sentire il sapore della sconfitta, non ero riuscito a piegare la sua volontà d’acciaio e la sua forza d’animo che gli avevano fatto attraversare imperterrito la tempesta che gli avevo scatenato contro. Giunsi quasi a provare invidia per il coraggio che stava manifestando. Mi resi conto che le sue reazioni, che immaginavo avrebbe manifestato, in realtà appartenevano a me. Era il modo in cui avrei reagito io se fossi stato al suo posto.
Questo riconoscimento in lui di un aspetto tanto nobile e umano, fu ciò che mi fece più male in assoluto.
Ne parlai con Marini. Decisi di fare una seduta su questo tema, confidandomi senza vergogna né pudore. Avevo una fiducia cieca in lui e non esitai neanche per un istante a raccontargli tutto ciò che avevo messo in atto in quei giorni. Sapevo che non mi avrebbe giudicato, anche se, in un paio di occasioni, immaginai che lui sgranasse gli occhi infuocati di collera e urlasse tu “sei completamente pazzo!” Invece rimase fermo, in silenzio, senza rinunciare mai alla sua posa tipica con cui si mostrava serio e inflessibile, attento e curioso al mio racconto e alle parole che usavo, il modo in cui le pronunciavo. Il suo sguardo, di tanto in tanto, cadeva sulle mie mani che agitavo platealmente nel vuoto. Una vecchia abitudine, quella di gesticolare mentre parlo, di cui non sono mai riuscito a liberarmi.
“Questo è tutto” dissi infine, mentre confessavo di sentirmi amareggiato per aver dovuto riconoscere la sconfitta su tutta la linea.
“Cosa intendi per sconfitta? L’agente immobiliare ti ha battuto perché non ha mostrato segni di cedimento mentre provavi a colpirlo oppure perché ti ha spinto a comportarti in un modo così…singolare?”
“Stai dicendo che dovrei vergognarmi, Marini?”
Mi scattò immediatamente un campanello d’allarme nella mente, sentivo che stava arrivando un giudizio sulla mia condotta e già mi ero messo sulla difensiva usando il tono più severo e accusatorio che potessi utilizzare. Marini capì subito i miei sentimenti e mi rassicurò immediatamente, porgendo le mani in avanti come se volesse respingere le parole pesanti come il granito che avevo appena pronunciato. “Nossignore” disse, “ti chiedo scusa se ti ho dato questa impressione, ti garantisco che non intendevo dire questo. Ciò che mi viene da suggerirti è di prestare attenzione al tuo animo per capire se una parte di te sta giudicando le tue azioni e il tuo operato e se l’amarezza non derivi da questo…chiamiamolo conflitto interiore.”
Istintivamente poggiai le mani sul bordo della scrivania e mi sollevai in piedi, in preda alla collera. Ero furioso, urlavo e digrignavo i denti come una bestia feroce. “Assolutamente no! Cosa te lo fa pensare? Perché mai dovrei giudicarmi? Io non ho fatto niente di male. Ho solo cercato di difendermi da un farabutto cercando di ripagarlo con la stessa mon…”
Non riuscii a terminare la frase. Le parole mi perirono in gola, il mio sguardo si perse nel vuoto e sentii un tonfo freddo e secco nelle viscere, come se avessi ingoiato un grosso e pesante sasso che andava a depositarsi sul fondo del mio stomaco. Ricaddi all’indietro e rovinai sulla sedia, lasciando andare braccia e gambe che penzolavano prive di vita ai lati e sotto la sedia.
“La prima parola che ti viene in mente?” sussurrò Marini, guardandomi con occhi colmi di compassione e tenerezza.
Deglutii, poi afferrai un kleenex da una scatola riposta sulla sua scrivania e me lo passai sulla fronte per asciugarmi il sudore. Infine, in un gesto di stizza, addentai il fazzolettino e lo mangiai. “Rabbia” biascicai, mentre ingurgitavo il boccone insapore. “Hai ragione. Avete tutti ragione, dannazione! Sono l’unico ad avere torto in questo schifoso mondo.”
“Calma!” obbiettò Marini, con tono fermo e deciso. “Respira. Te ne sei dimenticato un’altra volta. Ricordi l’esercizio di respirazione? Concentrati sul flusso del respiro e fai scivolare via questi pensieri. Così, bravo…ora cerchiamo di analizzare la questione. Vuoi farmi un riassunto di ciò che hai coscientemente realizzato a proposito di quest’esperienza?”
“Che mi giudico. Ho perso, quindi mi giudico. Il mio comportamento sarebbe stato comprensibile e giustificabile se avesse prodotto un risultato, se avessi ottenuto una prova della meschinità di quell’uomo.”
“E invece?”
“Invece non ho trovato nulla. Un individuo impeccabile nella vita di tutti i giorni. Pensavo di coglierlo in flagrante in comportamenti discutibili se non illeciti, lo avevo immaginato come un sadico che si diverte a torturare gli animali o un energumeno che maltrattata la sua compagna, o ancora un alcolizzato e cocainomane che passa le serate nei locali più lerci e malfamati della città. Niente di tutto questo.”
“Quindi la tua condotta ti pone su un piano inferiore rispetto a lui dal punto di vista morale. E’ questa la vera sconfitta, non è così?”
“Già…”
Facemmo una pausa. Marini fece ruotare la sua sedia e si mise di traverso ad osservare un angolo di muro su cui erano appese delle cornici con delle serigrafie di Frida Kalho. Al centro della parete troneggiava il suo diploma di laurea. Poi tirò fuori da una tasca una scatola di sigari, andò alla finestra e la spalancò, prese un sigaro dalla scatola e lo accese. Diede le spalle alla finestra e si sedette sul termosifone, da lì mi scrutava col suo occhio inquisitorio, inspirando saltuariamente profonde boccate di fumo. Sicuramente stava soppesando le parole per capire quali fossero quelle giuste da pronunciare. “Mi domando quanto tu sia pronto” disse infine.
“Pronto a che cosa?” chiesi, in preda alla confusione.
“Al cambio di prospettiva. A sviluppare la capacità di andare più in là con lo sguardo. A giungere a conclusioni diverse, nuove. Profonde.”
“Continuo a non capire.”
“Ciò che voglio suggerirti è di provare a ragionare su questa vicenda facendo ricorso alle risorse di cui ti sei impadronito durante questo percorso di consapevolezza che hai cominciato con me. Sei cambiato Giorgio, e tanto, forse ancora non te ne rendi conto ma hai fatto enormi progressi. A volte sembri un’altra persona rispetto al giovanotto dolente e spaurito che si era presentato in questo studio per la prima volta. Solo che certi meccanismi comportamentali sono duri da scardinare, ci appartengono da tutta una vita e sono ben oliati per cui è comprensibile che partano in automatico facendoci perpetuare ciclicamente gli stessi processi, le stesse dinamiche e azioni. Ma l’automatismo impedisce di accedere a queste risorse. Per questo vorrei che diventassi cosciente del tuo cambiamento e affrontassi questa vicenda con uno spirito diverso, più ricco e maturo.”
“Cioè? Dovrei forse riconoscere di essermi sbagliato e che l’agente immobiliare non è la carogna che pensavo? Magari andare da lui portandogli la somma che mi ha richiesto insieme ad una scatola di cioccolatini porgendogli le mie scuse per aver pensato male di lui?”
“Valuta tu cosa è giusto fare. Ciò che ti invito a fare è cambiare prospettiva, ovvero chiederti: perché? Qual’è il motivo che spinge quest’uomo a comportarsi in questo modo? Mi hai detto che altri prima di te hanno vissuto un’esperienza simile con lui. Perché lo fa? Forse ha subito delle truffe a sua volta che lo hanno spinto a diventare più scaltro fino a mostrarsi quasi cinico e insensibile nei confronti degli altri? O magari dipende dall’educazione che ha avuto? Chissà, magari i suoi genitori gli hanno trasmesso questo sistema di valori distorti, a sua volta vivevano di espedienti, campando senza remore sulla pelle del prossimo…”
“Mi stupisci, Marini. Mi stupisci e deludi. Queste tue ultime affermazioni non contraddicono forse il metodo che di psicoterapia che asserisci di avere sempre utilizzato? Stai parlando del passato, di cause, quando mi hai sempre spiegato che bisogna concentrarsi sul presente. Hai sempre ripetuto che conta solamente il qui e ora, ciò che siamo, non ciò che siamo stati, perché rischiamo di farci condizionare negativamente dal passato…”
“La terapia cognitivo-comportamentale si concentra sul presente, certo. Ma lo fa per trovare una soluzione nel tempo attuale alle sofferenze generate da eventi passati. Il passato ha un peso, una funzione su ciò che siamo oggi, questo è innegabile. Ciò che ti ho raccontato sulla mia ex-moglie…su quanto quell’esperienza mi abbia segnato e mi condizioni ancora oggi, dovrebbe essere abbastanza indicativo per te su quanto gli eventi passati influiscano sul nostro umore, le nostre decisioni e in generale sulla nostra vita.”
Provò a tirare una boccata di fumo ma il sigaro si era spento. Tirò fuori un accendino dalla tasca e lo riaccese, aspirando avidamente il fumo, fino a tossire in modo violento. Dapprima notai che le mani gli tremavano al punto di rendergli difficile centrare la punta del sigaro con la fiamma dell’accendino. Poi mi accorsi che le gambe erano molli, il busto gli si era piegato in avanti e le punte delle scarpe erano piegate verso il pavimento, come se stesse stringendo le dita dei piedi. Tutto il suo corpo comunicava nervosismo, disagio, paura. Lo guardai negli occhi e capii che Marini non era lì con me, il suo corpo era in quella stanza ma la sua mente vagava in chissà quale Universo, perso nei meandri del suo animo.
Rimasi immobile a contemplarlo, cercando di non fare il minimo rumore per non rompere quell’incantesimo che sembrava aver congelato Marini in uno stato fuori dallo spazio e dal tempo. Poi mosse le labbra in maniera impercettibile, comunicando con me con un filo di voce che proveniva direttamente dall’oltretomba dell’anima. Qualcosa era morto dentro di lui e una sua parte, ciò che restava del suo essere, leggeva il suo epitaffio per cercare di trasmettermi un messaggio.
“Credo sia arrivato il momento di raccontarti un fatto molto intimo e personale, oltremodo doloroso e tragico. Non puoi immaginare quanto mi faccia male rivangare certi eventi ma credo che sapere certe cose farà bene al tuo percorso terapeutico. D’altronde abbiamo già sperimentato, con successo, l’efficacia di una mia apertura per il tuo processo di guarigione, tu stesso hai testimoniato di avere avuto una svolta grazie al mio racconto sull’esperienza della mia ex moglie, quindi voglio continuare su questa scia. Stavolta andrò anche oltre, raccontandoti un evento ancora più drammatico e nefasto, che ha segnato la mia esistenza per sempre. Ascolta attentamente. Sintonizzati con il tuo cuore. Faccio affidamento sul fatto che alla mia massima apertura corrisponda un beneficio incommensurabile per la tua vita. Sacrifico la mia riservatezza, mi violento col dolore e riapro vecchie ferite unicamente per fare del bene a te. Fa di tutto affinché questo mio sacrificio non sia vano.
Io e Elena-così si chiamava la mia ex moglie-avemmo una bambina. Si chiamava Maria Teresa. Fu la salvezza per il nostro matrimonio, la sua nascita rinsaldò il nostro legame e per qualche anno abbiamo vissuto in piena armonia e felicità. Eravamo una famiglia perfetta. Elena, occupandosi di Maria Teresa, lenì la sua malattia dell’anima e riuscì a vincere la depressione. Si dedicò con tutta se stessa a crescere quella bambina e col passare degli anni il senso di vuoto per la perdita della madre fu colmato dall’amore per nostra figlia. Anche la traumatica esperienza degli abusi sessuali era ormai solo un brutto ricordo. Aveva superato ogni cosa. Ma il destino volle che quella felicità non fosse duratura, così un giorno nostra figlia morì, investita da un’auto mentre attraversava la strada di fronte al giardino di casa nostra per raccogliere una palla con cui stava giocando. Non aveva ancora compiuto 8 anni. La mia bambina…era così bella…”
Martini tirò fuori una foto dal portafogli e me la porse. L’immagine tremolante causata dalle scosse che attraversavano il braccio di Marini mi rimandavano la fisionomia soave di una piccola principessa. Il suo sorriso smagliante mi dilaniò le viscere come il morso di una bestia feroce. I suoi occhi color nocciola, leggermente velati dal taglio orientale delle palpebre, mi trasmisero gioia di vivere e purezza, il suo vestitino rosa confetto le donava un’aria regale e amabile. La fotografia aveva cristallizzato l’immagine di un angelo, regalando per l’infinito futuro un archetipo immortale di innocenza e beltà in contrasto con la terribile e tangibile realtà della morte nel presente.
“Giusto per assegnare un volto a quel nome. Ora, anche per te, non è più un’astrazione, un’idea di persona. E’ Maria Teresa, così come l’abbiamo cresciuta noi. Un essere vivente che ha vissuto, ha amato ed è stata amata per tutti quei pochi giorni in cui le è stato concesso vivere.”
“Era bellissima. Anzi, è bellissima” dissi. Poi feci un gesto molto sciocco. Presi la foto e la baciai, come è usanza fare per le foto dei morti. In realtà avrei voluto trasmettere il messaggio che il suo amore aveva vinto la morte e Maria Teresa continuava a vivere nel suo cuore e nei suoi ricordi. Poi realizzai che era un pensiero molto stupido, melenso e stereotipato e che era meglio tacere e condividere quella sofferenza.
“Morì sul colpo. Quando arrivarono i soccorsi non c’era più nulla da fare. Io ero a lavoro ed Elena affrontò da sola quei terribili momenti. Corse fuori di casa, abbracciò il corpo già senza vita della nostra piccola e lo tenne stretto a sé fino all’arrivo dei soccorsi. Mi hanno raccontato che ci vollero tre persone per staccarla dal suo cadavere.
Mi chiamarono dall’ospedale e mi chiesero di recarmi lì con urgenza. Trovai mia moglie in stato di shock. Suo fratello, mio cognato, lo zio di Maria Teresa, appena mi vide, si avvicinò, in lacrime. Prima ancora che mi abbracciasse avevo realizzato ogni cosa. Lo implorai, lo supplicai di dirmi che non era vero, che era uno scherzo, un brutto sogno, un’allucinazione, ma lui piangeva tenendomi stretto e affondando il viso nella mia spalla. E io allora urlai e urlai e urlai…mi inginocchiai, piansi, guardai mia moglie che se ne stava seduta su una poltroncina tenendo lo sguardo fisso dinanzi a sé, la chiamai, lei si voltò lentamente, mi restituì uno sguardo gelido, indifferente, e tornò ad osservare il punto dinanzi a sé e io urlai e piansi ancora più intensamente, poi mostrai i pugni al cielo, maledissi il mondo, il destino, la vita, la morte…
Non ricordo cosa facemmo nelle due settimane successive. Probabilmente rimanemmo chiusi in casa a piangere e disperarci, stesi sul letto senza nutrirci, lavarci, avere interazioni con la realtà esterna. Non ho ricordi neanche del funerale di Maria Teresa. Probabilmente non ci andammo. Il dolore era troppo, le nostre fragili menti non potevano tollerare di vedere la nostra bambina mentre veniva adagiata in una bara e ricoperta di terreno. Il primo evento di cui ho memoria…è solo un’immagine…io che me no sto sdraiato su una pietra sotto un cielo notturno. Intorno buio e sagome di montagne, e poi il mare, mi sembra di riuscire ancora ad udire il fragore delle sue onde che si infrangono sugli scogli…dovevo essere su un’isola, forse Capraia, o Ponza, non posso saperlo di preciso. Ero sotto l’effetto di stupefacenti, un vizio in cui caddi negli anni successivi insieme all’abuso di alcool e i miei sensi erano intorpiditi così come lo sono i miei ricordi ora…comunque un dato di fatto lo ricordo bene: ero da solo. Mi ero concesso una fuga dal mondo per cercare di rifugiarmi da quel dolore, ma dovetti farlo senza Elena. Io e lei, per qualche motivo, decidemmo di affrontare individualmente, in perfetta solitudine, il nostro lutto. Stare vicini ci faceva troppo male, forse perché ogni cosa di uno faceva emergere nell’altro un ricordo legato a Maria Teresa. I suoi occhi…erano gli stessi di sua madre…il naso era uguale al mio…così come le labbra…la camminata invece era quella di Elena. Il portamento, la grazia, l’aveva presi da lei. Non riuscivamo a toglierci dalla testa l’idea che l’incontro tra le nostre vite aveva prodotto la sua nascita e di conseguenza la sua morte. Che se non ci fossimo mai incontrati lei non sarebbe nata. E di conseguenza non sarebbe mai potuta perire in quel modo assurdo. Quel dolore aveva cancellato con un colpo di spugna il ricordo degli anni lieti precedenti all’incidente. Non era valso la pena vivere spensieratamente per 8 anni se poi era dovuta andare incontro ad una fine così tragica. Era questo il nostro pensiero costante che, inevitabilmente, come puoi immaginare, portò alla nostra rottura. Dopo qualche mese, durante i quali ci eravamo evitati continuamente, chiusi in un mutismo e un’incomunicabilità quasi assordanti, Elena chiese la separazione che io concessi senza pensarci due volte. Mi lasciò la proprietà della casa e se ne andò, non so dove. Non l’ho mai più rivista. Ogni tanto ricevo una telefonata da suo padre o dal fratello che mi rassicurano che Elena sta bene, non vuole far sapere dove si trova perché teme che possa cercarla, e non vuole. Ma ci tiene a farmi sapere che è tornata a vivere, ha reagito e trovato una ragione di vita in attività di volontariato, si occupa degli altri nel ricordo di nostra figlia, così da non rendere vana e priva di senso la sua morte e, più di ogni altra cosa, la sua vita.
Per quanto mi riguarda…ho vissuto sei anni d’inferno. La mia vita era distrutta. Avevo perso la mia adorata e unica figlia, mia moglie mi aveva lasciato, non avevo più una famiglia, avevo smesso di lavorare. Non avevo più nulla. Non avendo più un reddito cominciai ad accumulare debiti, i miei esigui risparmi sparirono in pochi mesi e ben presto persi la casa, che mi venne sottratta dalla banca. Il comune mi diede una casa popolare e mi ritrovai a vivere in uno squallido monolocale di periferia, continuamente sporco e maleodorante a causa della mia scarsa attenzione per le pulizie domestiche.
Consumavo chili di ashish e marijuana e bevevo litri di vino e rum. Non appena ricevevo qualche soldo, magari come regalo da parte di un amico mosso a compassione dalla mia condizione, li spendevo in alcool e droghe. Preferivo non mangiare, rinunciavo ai pasti ed ero capace di digiunare per un giorno intero pur di non farmi mancare una canna o una busta di Tavernello.
Passai diversi anni così, a vegetare. Mi svegliavo la mattina desiderando di morire e il mio ultimo pensiero, la mia unica speranza, la sera, prima di addormentarmi, era che non riaprissi gli occhi.
Non credevo in Dio ma in qualche attimo di lucida follia giungevo ad implorarlo, in lacrime, di strapparmi il soffio vitale dal corpo, chiedevo pietà, che mettesse fine a quel tormento donandomi la morte, lo sfidavo, lo insultavo, rotolandomi sul pavimento e flagellandomi davanti ad una croce o un’icona sacra.
Poi capii che nessuno avrebbe esaudito il mio desiderio. Né Dio, né un altro essere umano. Nessuno era abbastanza caritatevole da porre in essere un gesto compassionevole come la mia soppressione e se volevo abbandonare quella valle di lacrime dovevo agire per conto mio. Decisi di farla finita. Volevo suicidarmi. Ma decisi che non sarei morto da solo. Mi sarei portato con me l’assassino di Maria Teresa. Seppi che il processo in cui l’autista della macchina che l’aveva investita era imputato per omicidio colposo si era concluso con la sua assoluzione, per cui cominciai a covare propositi di vendetta. Lo avrei ammazzato, e poi mi sarei ammazzato a mia volta. Mi procurai il nome e l’indirizzo di residenza. Baldi Giuseppe, 23 anni al momento dell’incidente, 29 anni in quel momento, studente universitario di scienze politiche, una fidanzata e un lavoro part-time in un ufficio regionale di assistenza agli studenti universitari stranieri. Al momento dell’incidente guidava la macchina del padre, che gliel’aveva prestata per svolgere una commissione fuori città. Pare che corresse un po’ perché era in ritardo ad un appuntamento. Durante il processo dichiarò che si era vista sbucare Maria Teresa all’improvviso sulla strada e non aveva avuto il tempo di frenare né di sterzare e la corte gli aveva creduto. In sostanza, assolvendolo dall’accusa “perché il fatto non sussisteva”, come recitava il dispositivo della sentenza, avevano dato la colpa a Maria Teresa che si era lanciata in mezzo alla strada in maniera troppo avventata. Fu l’ultima goccia. Tirai fuori dal ripostiglio un vecchio fucile da caccia arrugginito, dimenticato dai precedenti abitanti dell’appartamento con tanto di cartucce, lo restaurai, lo ripulii dalla ruggine, segai una parte della canna del fucile per accorciarlo così da rendere ancora più devastante l’effetto dei proiettili.
Lo collaudai in campagna per essere sicuro che i proiettili fossero ancora utilizzabili nonostante l’umidità e, con mia tremenda soddisfazione, realizzai che il fucile era ancora efficiente e soprattutto potente. Con un colpo ero capace di far esplodere un’anguria in mille pezzi e già assaporavo il momento in cui avrei fatto lo stesso con la sua testa.
Un giorno nascosi il fucile nella mia giacca e mi recai a casa sua. Abitava ancora con i suoi genitori, pensai che lo avrei invitato ad uscire di casa per fare quattro passi e due chiacchiere e lì avrei consumato la mia vendetta. Avevo usato quasi tutti i proiettili nelle esercitazioni, ne avevo conservati solo due. Uno lo avrei usato per lui, poi avrei rivolto l’arma contro di me e mi sarei sparato al petto. Non volevo in alcun modo coinvolgere suo padre e sua madre, quella storia aveva già fatto troppe vittime innocenti.
Bussai alla porta di casa sua e mi aprì sua madre, una donna gentile e amabile sulla cinquantina. Mi riconobbe subito, nonostante l’aspetto trasandato, e quando chiesi di parlare con Giuseppe scoppiò a piangere e mi invitò ad entrare. Chiamò suo marito, ci presentammo, mi fece accomodare in salotto, dove notai varie foto incorniciate del loro unico figlio. Le gambe cominciarono a formicolarmi e il cuore batteva forte come se volesse schizzarmi via dalla gabbia toracica, mentre un pensiero agghiacciante si faceva largo nella mia testa. Prepararono un caffè e si sedettero in poltrona accanto a me. Portarono anche una torta alla crema che nessuno toccò, così come il caffè. Si guardarono negli occhi, per decidere chi dovesse parlare, infine fu la madre a comunicarmi la notizia: Giuseppe era morto da qualche mese per un tumore. Mi raccontarono la storia del suo tormento, non inferiore a quello che avevamo vissuto io e Elena, nel periodo successivo all’incidente. Aveva smesso di vivere, non riusciva più a dormire, quando chiudeva gli occhi riviveva la scena del drammatico impatto tra il suo corpicino e la macchina, il suo sguardo colmo di terrore mentre l’auto si avvicinava, il rumore sordo delle sue ossa che andavano in frantumi, la vista della sua schiena spiaccicata sul parabrezza…diceva di avere costantemente davanti agli occhi il suo volto, in ogni bambina che incrociava per strada vedeva Maria Teresa. Non mangiava più, non dormiva, fu anche ricoverato in una clinica psichiatrica per qualche settimana dopo che aveva manifestato degli impulsi suicidi. A nulla valsero le parole della famiglia e degli amici che cercavano di rassicurarlo e confortarlo dicendogli che non era stata colpa sua. Anche la sentenza di assoluzione fu vana. Non riusciva a perdonare se stesso, era giunto a dannare il giorno in cui era nato, perché se non fosse mai esistito Maria Teresa non sarebbe morta. Il senso di colpa lo aveva roso dentro fino a farlo ammalare di tumore, che se lo portò via in pochissimi mesi. Non lottò contro la malattia, non aveva più voglia di vivere e giunse a definirsi contento per quel male che si era sviluppato in lui, la considerò la giusta punizione per ciò che aveva causato. Pensava, con la sua morte, di espiare la sua colpa.”
Un piccione si posò sul davanzale della finestra alle spalle di Marini e tubò in tono lamentoso. Sembrava in punto di morte, o comunque in preda ad un tormento legato alla morte, come se avesse ascoltato di nascosto quello straziante racconto e ora avesse voluto rivelare la sua presenza per rendere omaggio alle vittime di quella storia con quel verso straziante. Lo osservammo per qualche attimo poi i nostri sguardi si incrociarono e ridemmo divertiti, senza riuscire a nascondere l’imbarazzo reciproco che stavamo provando. Il racconto era finito. Marini tacque, aspettandosi un mio commento, una reazione, una parola, ma io avevo le mascelle serrate e il cuore in gola. Mi sforzavo di formulare un pensiero o di pensare ad un gesto che avrei potuto fare ma non fui in grado di rompere il mio mutismo. Mi venivano in mente solo frasi sciocche e scontate, “che storia assurda”, “immagino quanto devi aver sofferto”, “capisco bene il tuo dolore”. Ma sarebbero state affermazioni false. Non era una storia assurda, semplicemente era la storia di una vita, che può essere segnata da drammi e tragedie. Come tanti, ma non come tutti. Non potevo immaginare quanto avesse sofferto né potevo capire il suo dolore perché la mia mente non riusciva neanche lontanamente a concepire l’entità di quella sofferenza, che non aveva pari nella mia vita. Mai, nella mia misera esistenza, che ritenevo sfortunata e funesta, avevo mai sperimentato una simile condizione. Mi imposi di tacere per non mentire a me stesso nel tentativo di pormi alla pari di quel gigante dall’animo puro e limpido come la brezza del mattino. Appoggiato alla finestra, coi raggi solari che entravano nello studio e ne contornavano le membra, sembrava una creatura divina, ammantata da un’aura lucente ed eterea.
Il mio silenzio era accompagnato anche da una parziale immobilità del mio corpo, mi sentivo semi paralizzato e non riuscivo a comandare i miei arti. L’unica parte del corpo che muovevo erano le mani, le sfregavo furiosamente, tanto che pensavo stessero per sanguinarmi, infine le congiungetti in preghiera e me le portai alla fronte mentre continuavo a stringerle, affondando le unghie delle dita nella pelle. Chiusi gli occhi e cercai di abbandonare ogni pensiero, mi concentrai sul respiro come mi aveva insegnato Marini e mi calai in un stato di profonda concentrazione. L’unico rumore esterno che percepivo era l’espirazione di Marini, che giunse ad essere, forse inconsciamente, in simbiosi con la mia. Poi sentii una pressione sul petto che ben presto si trasformò in dolore acuto, aprii gli occhi e mi resi conti che i miei bulbi oculari erano pieni di lacrime. Scattai in piedi, corsi verso Marini e lo abbracciai. Poi piansi, come non avevo mai fatto in tutta la mia vita. Sembrava volessi distillare attraverso gli occhi fino all’ultima goccia del mio essere, per farne uscire un uomo nuovo, depurato dall’immondizia che avevo accumulato fino a quel momento. Con quell’abbraccio percepii chiaramente che stavo lasciando andare via l’egocentrismo, l’arroganza, la presunzione, la pigrizia, l’avidità, la collera. Erano rimasti indietro, su quella sedia, come dei pacchi che avevo depositato dietro di me, in un archivio dell’anima in cui tenerli sotto chiave. Le avrei recuperate di tanto in tanto, non mi illudevo di averle eliminate per sempre, ma avevo la percezione di riuscire a guardarle da una certa distanza, che mi donava consapevolezza e maturità.

 

 

Pubblicato da Arsenio

Arsenio Siani nasce a Sarno (SA) il 29/9/1982. Di animo sensibile e introverso, da sempre assetato di conoscenza, studioso, nel tempo libero, di filosofia e religione, nel 2009 si converte al Buddismo aderendo all'istituto buddista italiano Soka Gakkai, con cui inizierà un percorso di autoconoscenza e di sviluppo di consapevolezza sulla vita e sull'uomo. Questo percorso lo porterà ad intraprendere studi di psicologia che lo porteranno a conseguire il diploma in counseling e coaching e a intraprendere la carriera come counselor. Nel 2012 decide di dedicarsi alla scrittura e dopo circa un anno vede la luce il suo primo romanzo, "Roba degli altri mondi", primo volume della trilogia Fantasy “I Maestri”, pubblicato dalla casa editrice Officine Editoriali. Scrive anche racconti con cui partecipa a diversi concorsi letterari, ottenendo riconoscimenti e segnalazioni. Nel novembre 2013 il suo racconto "Calzini" si classifica al primo posto nella sezione “Racconti” alla decima edizione del "Cahieurs du trosky Cafè". Nel 2014 “Roba degli altri mondi” riceve la menzione d’onore da parte della giuria al concorso letterario “Penna d’autore” e nel luglio dello stesso anno la sua raccolta di racconti "Ogni cosa è connessa" viene segnalata al concorso letterario "Narrando per passione".Nel 2015 pubblica, sempre per i tipi di Officine Editoriali, “Il prezzo della conoscenza”, secondo volume della trilogia “I Maestri”. Inoltre per la Eretica edizioni pubblica la raccolta di racconti "Frammenti". Altre sue grandi passioni, il disegno e la fotografia per i quali manifesta particolare sensibilità e trasporto.